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Poiché nel Seicento il fenomeno dei musicisti stranieri a Napoli è limitato a pochi casi documentabili, oltre a citare nel dettaglio questi ultimi mi sembra interessante esaminare il collezionismo musicale e la diffusione europea dei manoscritti copiati a Napoli. E' importante sottolineare che i principali mecenati in città erano stranieri (i viceré spagnoli e membri della corte, banchieri fiamminghi, etc.) e questo elemento atipico per la situazione italiana contribuì certamente alla diffusione della musica napoletana presso i rispettivi centri di provenienza, contribuendo cosi alla nascita del mito della "scuola napoletana". Dopo aver esaminato alcuni casi di collezioni napoletane disperse, è posta l’attenzione su un manoscritto oggi in Francia che possiamo considerare un quaderno di appunti di un organista probabilmente tedesco che ha studiato a Napoli (forse con Francesco Provenzale, il più importante musicista napoletano del secolo) intorno al 1675: questo manoscritto riunisce emblematicamente tre nazioni (Germania Italia e Francia) come nel progetto MUSICI.
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Per studiare la musica come elemento dell’identità urbana di Napoli nel Seicento, Fabris si è servito dello sguardo « esterno » del viaggiatore (per esempio Jean-Jacques Bouchard, che trascorse a Napoli buona parte dell’anno 1632) e contemporaneamente allo sguardo « interno » dei musicisti napoletani (per esempio l’abate Bonifacio Pecorone, musicista della cappella reale di Napoli, autore di una rara autobiografia edita nel 1729). Dopo un richiamo dell’urbanizzazione galoppante della città dalla fine del Cinquecento – Napoli diventò allora la città più popolosa d’Europa, «quasi un mostro» che inventò tra l’altro i « grattacieli » per ospitare una massa enorme di abitanti – ci ha presentato i principali luoghi della musica nella città, sottolineando che la disposizione geografica non era per niente casuale. Contrapposto al centro politico (Castel Nuovo, Palazzo vicereale, e quartieri « spagnoli ), staccato dal resto della città, si trovava un’area di influenza autoctona napoletana, riunita attorno al duomo (simbolo del potere religioso), di fronte al quale era l’oratorio dei Gerolamini ma anche vicino a luoghi cruciali del governo cittadino come la chiesa di San Lorenzo Maggiore. Ai quattro margini esterni di quest’aerea si trovavano i quattro conservatori, creati durante il Seicento: il conservatorio di Sant’Onofrio, quello dei Poveri di Gesù Cristo, quello di S. Maria di Loreto e quello di S. Maria della Pietà dei Turchini. Questi conservatori, nel momento di massima attività dalla metà del Seicento, accoglievano 400 studenti nuovi ogni anno. Siccome si produceva più forza lavorativa di quella che la città, pur dotata di 500 chiese e cappelle, potesse assorbire, molti giovani musicisti erano costretti all’emigrazione soprattutto dal primo Settecento.
Fino agli anni 1630 la musica faceva parte della vita quotidiana della nobiltà napoletana – ben noto è il caso del principe di Venosa, Carlo Gesualdo. È in questo ambiente che era nata la villanella nel secolo precedente. Le sue origini sono nel contesto urbano della Napoli del primo Cinquecento e le villanelle, prodotte per un pubblico colto, ne erano divenute l’emblema.. La scelta della lingua napoletana faceva parte della costante opposizione dei nobili nei confronti dei governanti spagnoli: siccome la nobiltà non aveva più il diritto di prendere gli armi, cercò di esprimere la propria identità superando gli occupanti nell’arte musicale, unica pratica concessa ai giovani aristocratici.
Siccome i vicere cambiavano in media ogni due anni, la corte vicereale non era in grado di offrire una stabile organizzazione di mecenatismo politico. Invece appartenere alla cappella dei vicere (che aveva lo status di Cappella Reale di Spagna, ed era quindi di grande prestigio), era il vertice della carriera possibile per un musicista napoletano. Ma tranne la Cappella Reale e per le « feste a ballo » non si faceva molto musica alla corte dei vicere spagnoli. Vi furono tuttavia almeno tre vicere di Napoli che si distinsero per la loro personalità di mecenati, tutti e tre venuti da Roma: il conte d’Onate (che impose in città l’opera in musica di tipo veneziano a partire del 1650, nell’intenzione di creare un’immagine positiva della Spagna dopo la rivoluzione di Masaniello), Gaspar de Haro marchese del Carpio (grande erudito, protettore di Scarlatti, che riuscì a far respirare un’aria internazionale a Napoli), e il duca di Medinaceli, un caso studiato e riabilitato solo recentemente.
Tra i maggiori mecenati della città – esautorati quasi tutti i nobili per il loro atteggiamento antispagnolo – erano gli ecclesiastici, e soprattutto gli arcivescovi. Le istituzioni musicali legate al sacro erano infatti innumerevoli : nella Napoli del Seicento si contano 500 chiese e conventi, e quasi il dieci per cento dei quattrocentomila abitanti erano religiosi. All’inizio del secolo la città aveva dieci santi protettori, alla fine erano una quarantina. Tra le feste religiose un grande spazio era dedicato ai santi patroni, tra i quali il più importante era San Gennaro, che da solo aveva tre feste durante l’anno. Sotto questo impulso molte istituzioni caritatevoli, soprattutto gli orfanotrofi, si specializzarono nell’insegnamento professionale della musica. Fabris ha ricordato quanto importante era il ruolo della musica nella Controriforma a Napoli, una città in cui si trattava di evangelizzare come missionari un popolo considerato come «las Indias de por aca».
Non si devono tuttavia dimenticare alcune grandi famiglie nobili che agirono saltuariamente come mecenati della musica: gli Spinelli, che fecero rappresentare nella loro casa nel 1644 la Galatea, o ancora i Maddaloni che contribuirono a far venire Scarlatti a Napoli. Fabris ha preso infine l’esempio del famoso banchiere fiammingo Gaspar Roomer, grande collezionista, uno dei più grande mecenati di Napoli alla metà del Seicento, che finanziò anche due dei conservatori della città.
– Differenza nel posto degli stranieri a Napoli e a Roma: a Napoli, non essendo capitale di uno stato autonomo, non c’è nessuna ambasciata ma a limite dei « residenti ». Tutte le ambasciate si trovano a Roma.
– L’opinione diffusa è che la Napoli del Seicento si affollasse di studenti giunti da ogni paese per perfezionarsi negli studi musicali. Ma non è facile seguire le loro tracce negli archivi. C’è ancora tutto un lavoro da fare soprattutto in archivi smisurati come l’Archivio Storico del Banco di Napoli (che conserva tutta la contabilità della città, anno per anno) e l’Archivio Notarile. Ma anche un fondo apparentemente conosciuto come quello relativo ai documenti degli antichi quattro conservatori di musica del Seicento, nonostante gli antichi studi di Salvatore di Giacomo, attende ancora una indagine sistematica e metodologicamente corretta.
Anne-Madeleine Goulet
Centre d’études supérieures de la Renaissance
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Prof. Dr. Gesa zur Nieden
Universität Greifswald
Institut für Kirchenmusik und Musikwissenschaft
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