C. Giron-Panel/ A.-M. Goulet (éd.), La musique à Rome au XVIIe siècle : études et perspectives de recherche, Rome 2012.
A.-M. Goulet/G. zur Nieden (ed.), Europäische Musiker in Venedig, Rom und Neapel / Les musiciens européens à Venise, Rome et Naples / Musicisti europei a Venezia, Roma e Napoli 1650-1750, Kassel 2015 (= Analecta Musicologica 52).
L'obiettivo di queste giornate di studi è quello di riflettere sugli assi di ricerca, sia teorica che applicata, suggeriti dai musicologi specializzati sulla musica a Roma nel XVII e XVIII secolo. Si tratterà di fare il bilancio degli studi effettuati negli ultimi trent'anni e, soprattutto, di cogliere delle prospettive che possano orientare i lavori futuri a medio e lungo termine. La manifestazione è dedicata alla figura di Jean Lionnet (1935-1998), esperto senza pari del repertorio musicale dell'epoca, i cui lavori hanno aperto ricchissimi percorsi di ricerca e che ha saputo, grazie alla capacità di dialogo con gli interpreti, dare un nuovo impulso all'esecuzione.
Saluto
Jean Lionnet, la musica e i musicisti
De la source à l’interprétation: I Vespri di Bencini nell’itinerario di ricerca di Jean Lionnet
Ritratto di Jean Lionnet
Presentazione del data-base Philidor, " I musicisti a Roma (1570-1750)"
La musica a Roma nel Seicento e la ricerca storica: retrospettive e prospettive
De la source à l’interprétation: I Vespri di Bencini nell’itinerario di ricerca di Jean Lionnet
O la Francia o la Spagna. Finalità delle rappresentazioni musicali tra storia politica e storia culturale
Dallo scarabocchio alla composizione: le fonti romane di musica per tastiera nel Seicento
L'attività musicale presso i Pamphilj nel Sei- e Settecento
L’Amor per vendetta o vero L’Alcasta: opera e mecenatismo tra Roma e Venezia nella seconda metà del Seicento
I due testi d'opera. Per un’analisi dell'opera romana seicentesca fra libretto e partitura
Le poesie per musica del Cardinale Antonio Barberini nel cod. vaticano Barb. Lat. 4203
Questioni di prassi esecutiva policorale nella Chiesa del Gesù
La musique intérieure. Perspective méthodologique
Conclusioni
Apertura del festival di musica barocca nelle cinque chiese francesi di Roma, « Le Cinque Perle del Barocco », con il concerto Vespro della Beata Vergine per la Cappella Giulia di Pietro Paolo Bencini (1675-1755), dalla Maîtrise du Centre de Musique baroque de Versailles, sotto la direzione di Olivier Schneebeli.
O la Francia o la Spagna. Finalità delle rappresentazioni musicali tra storia politica e storia culturale
La rivalità entro la Francia e la Spagna nella Roma seicentesca è già stata oggetto di vari studi musicologici molto istruttivi (p. es. Griffin, Boiteux, Morelli, Marx, Stein). Esaminando in modo dettagliato le varie esecuzioni musicali nelle ambasciate, case nobili e soprattutto in Piazza di Spagna, ovvero nello spazio tra l’ambasciata spagnola e la chiesa Trinità dei Monti sotto protezione francese, questi studi hanno portato alla luce una prassi artistica molto importante rivolta a un grande pubblico, e in cui si riflettevano le relazioni politiche e diplomatiche concorrenziali tra Francia e Spagna nei confronti dello Stato Pontificio. Quanto alle finalità politiche degli spettacoli organizzati dal partito francese o spagnolo, la ricerca concorda nell’assumere che la concorrenza tra le due nazioni s’inasprì da quando Urbano VIII aveva dato alla Francia la stessa importanza della Spagna, anzi l’aveva preferita a livello politico e diplomatico (Dandelet). Questa concorrenza, articolandosi prima di tutto nell’esaltazione musicale e teatrale dei rispettivi sovrani, il Re cattolico e il Re cristianissimo, emerge chiaramente dal fatto che la Spagna organizzò a partire dal 1681 una serenata in onore della regina Maria Luigia per lo stesso giorno, il 25 agosto, in cui aveva luogo la festa nazionale francese dedicata a San Luigi. La rivalità sarebbe cessata nel corso della guerra di successione spagnola intorno al 1700, nel momento in cui la corte di Francia garantì la successione spagnola di Filippo V a Carlo II.
Il presente intervento si propone di analizzare le esecuzioni musico-teatrali dei partiti francese e spagnolo, realizzate nella Roma seicentesca, in una prospettiva tratta dalla “nuova storia politica” (Neue Politikgeschichte) e la “storia culturale della sfera politica” (Kulturgeschichte des Politischen, Stollberg-Rilinger), con l’obiettivo di valutare l’impatto politico sulla vita musicale romana e viceversa. L’approccio non tiene solo conto della cronologia degli eventi politici, come guerre e azioni diplomatiche, mettendoli in relazione con il contenuto e la presentazione degli spettacoli musicali per spiegarne le finalità politiche, ma offre una visione più complessa, integrando i vari contesti politici, sociali e culturali dell’esecuzione musicale in questione, come l’orizzonte dell’esperienza dei vari strati sociali e il ruolo della politica nella vita quotidiana. Per essere più precisi : contrariamente alla storia politica tradizionale che si era limitata allo studio delle decisioni e dell’agire politico, la storia culturale della sfera politica si concentra sulla comunicazione simbolica con la quale il sovrano o il governo comunicano con i loro concorrenti e sudditi. Per costituire l’autorità del dominio, il potente ricorre soprattutto a rituali politici, indirizzati al popolo, come cerimonie o feste in suo onore. La ritualità di questa comunicazione simbolica, che risalta attraverso strutture fisse di contenuto, linguaggio, metafore figurative e spazializzazione, rende il messaggio politico inequivocabile ma proprio questo carattere obbliga il sovrano di essere coerente, nella realtà, alla propria autopresentazione, e alle promesse che ne derivano. Di conseguenza, le autorappresentazioni strutturano anche la vita politica sul piano delle decisioni e degli eventi, generando orizzonti di percezione e di aspettativa. Con un tale approccio di storia culturale che evidenzia sia le strutture comunicative sorte tra messaggio politico e la sua percezione, sia il loro uso tramite attori individuali, è possibile ricollegare i meccanismi della sfera politica all’epoca in questione, e spiegare le loro finalità e il loro impatto sulla vita quotidiana, artistica e musicale e viceversa.
Come risulta dagli studi sulla sfera politica nei primi tempi moderni, la politica seicentesca si basava sulle reti sociali della classe dominante e non su una struttura istituzionale fissa (Schlögl). Fin dal 1605, quando la Francia ritornò sulla scena della politica europea (Metzler), il paese mirava costantemente ad allargare i suoi contatti all’interno della nobiltà romana, e soprattutto del Collegio dei cardinali, per partecipare al dominio politico sullo Stato Pontificio. Una tale “micro-politica” (Mikropolitik, Reinhard), perseguita anche dagli spagnoli attraverso il loro importante sistema di elargizioni, era caratterizzato da cambiamenti continui e richiedeva un impegno regolare. Come ci dimostrano le varie relazioni sulla politica e diplomazia francese e spagnola nella Roma del Seicento, scritte con uno spirito orientato a Machiavelli, e che saranno menzionate durante la mia presentazione, questo modo di procedere, ovvero di legare un numero sempre maggiore di persone importanti al proprio potere, corrispondeva alla tendenza generale efficace nella politica dell’Europa seicentesca. I potenti si rivolgevano sempre più spesso a questioni relative al potere politico, fino a far nascere un’ ”arte politica” di dominio, aspirando di meno alla beatitudo e felicitas di tutti secondo la concezione aristotelica. Un importante filo argomentativo era quello di presentare le azioni dirette contro un ambasciatore o contro il sovrano della propria nazione come offesa recata a tutti i connazionali viventi a Roma.
Queste due strategie politiche – la costruzione di reti sociali con lo scopo di conquistare un maggiore potere politico, e l’importanza dei connazionali a Roma nelle argomentazioni politiche – costituiranno la base per l’analisi delle rappresentazioni musicali finalizzate a raffigurare la nazione francese o spagnola. Ci concentreremo soprattutto sulle serenate e rappresentazioni musico-teatrali degli ambasciatori francesi e spagnoli nella seconda metà del Seicento fino alla guerra di successione spagnola. Attraverso una rilettura delle relazioni su questi spettacoli ricostruiremo le loro aperture verso il pubblico nobile e popolare, o la loro restrizione a certi cardinali e ambasciatori (vedi anche il suggerimento di Morelli, 1996, p. 156). In un secondo momento passeremo all’analisi comparativa del contenuto e dell’esecuzione degli spettacoli “politici” che si servivano di molti elementi simili, come il simbolo monarchico del sole, ma che si distinguevano anche tra di loro con incursioni artistiche nazionali, come nel caso delle rappresentazioni organizzate dall’ambasciatore spagnolo, Marchese del Carpio. Lo scopo di quest’analisi è quello di scoprire la ritualità delle rappresentazioni musico-teatrali attraverso la loro comparabilità, e la possibilità di “creare un evento” con delle novità stilistiche. Su questa base studieremo la loro capacità di trasmettere un messaggio politico e di coinvolgere un pubblico molto ampio, offrendo un panorama politico artificiale e simbolico.
All’interno di un tale panorama, caratterizzato da una ritualità ambientata a Roma e da influenze venute da fuori, la musica rivestiva un ruolo molto importante, sia sul piano dell’effetto percettivo sia come strumento storiografico per la contestualizzazione culturale e sociale delle rappresentazioni politiche francesi e spagnoli, e quindi per la relativizzazione delle strategie politiche nell’ambito di un’esecuzione musicale pubblica. Da un lato, quasi tutti gli spettacoli erano contraddistinti da una grande orchestra, composta dai migliori musicisti di Roma, e con una forte predilezione per i virtuosi. Questi aspetti costituivano una parte importante della ritualità rappresentativa non solo romana, ma anche europea. Quanto alle composizioni – sfortunatamente perse nella maggior parte dei casi – erano spesso dei compositori legati alle due chiese nazionali come Alessandro Melani di San Luigi dei Francesi o Severo De Luca di San Giacomo degli Spagnoli. Dall’altro lato, i musicisti chiamati a partecipare agli spettacoli in Piazza di Spagna appartenevano a una rete molto ampia che permetteva degli scambi frequenti e delle carriere tra tutte le chiese principali della città (vedi gli studi di Lionnet su San Luigi dei Francesi e San Giacomo degli Spagnoli). Di questi scambi erano coscienti anche gli ambasciatori, imprenditori degli spettacoli politici. Su questa base emerge un panorama socio-culturale fortemente definito dal mercato musicale e dalle opportunità di lavoro per i vari musicisti al di là delle affinità politiche. Infine esamineremo le influenze delle finalità politiche di questi spettacoli musicali sulla vita musicale romana, utilizzando i termini chiavi già sviluppati da Jean Lionnet, come la professionalizzazione dei musicisti e la politicizzazione della musica nella Roma seicentesca.
Dallo scarabocchio alla composizione: le fonti romane di musica per tastiera nel Seicento
Outre les oeuvres imprimées de Girolamo Frescobaldi, il n’existe que deux volumes publiés de musique pour clavier à Rome durant le XVIIe siècle: les Toccate de Michelangelo Rossi, datant probablement de 1644 et les Ricercari de Fabrizio Fontana (1677). L’absence d’imprimés ne signifie en aucun cas que la pratique du clavier se raréfie. Il faut simplement se tourner vers les sources manuscrites pour découvrir ce florissant répertoire. Les oeuvres de Bernardo Pasquini et Johann Jakob Froberger, pour ne citer que les plus célèbres, survivent quasi exclusivement sous forme manuscrite. Mais surtout – et c’est ce qui nous intéresse ici – une importante partie des oeuvres de l’école romaine nous sont parvenues uniquement par le biais des manuscrits, à commencer par celles de Frescobaldi luimême, ainsi que celles de ses élèves et successeurs: Nicolò Borbone (ca. 1591-1641), Francesco Muzi (actif de 1623 à 1664), Leonardo Castellani (ca. 1610-1667), Giovanni Battista Ferrini (ca. 1600-1674) ou Fabrizio Fontana (ca. 1610-1695).
Ces manuscrits sont les témoins privilégiés de l’activité quotidienne du musicien et ils se présentent sous une forme bien différente des oeuvres imprimées. Ces dernières sont destinées à être diffusées, à établir la réputation d’un musicien; c’est la raison pour laquelle elles sont soigneusement préparées, amendées et corrigées. Les manuscrits sont d’une toute autre nature. Ils se caractérisent par leur hétérogénéité et la variété de leurs fonctions, allant du cahier d’organiste aux oeuvres didactiques ou ébauches de composition. Les pièces sont souvent hâtivement rédigées, difficilement déchiffrables et rarement destinées à être lues par des tiers, exception faite des pièces pédagogiques. Ces gribouillis sont fascinants par leur immédiateté: ils nous permettent de comprendres les diverses facettes de l’activité d’un organiste à Rome au XVIIe siècle et surtout, dans le cas d’ébauches de composition, de mettre en lumière et de mieux comprendre le processus créatif d’un musicien important comme Frescobaldi. En outre, certaines concordances, partielles ou non, nous permettent d’établir avec certitudes des attributions qui jusqu’à présent restaient très discutables.
Parmi la centaine de manuscrits romains qui nous sont parvenus, les plus intéressants sont indubitablement les autographes de Frescobaldi. Jusqu’à présent, le seul autographe connu était le manuscrit Chigi Q. IV.29, identifié par Claudio Annibaldi en 1985. J’ai eu la grande fortune de découvrir et d’identifier quatre autres volumes autographes: F-Bnf Rés. Vmc.ms.64 contenant des ébauches de composition, I-Rvat Barb.lat.4181 et 4182 contentant des pièces didactiques destinées aux petits-neveux du pape Urbain VIII et un fascicule du manuscrit I-Rvat Chigi Q. VIII.205-6 contenant trois motets de la main de Frescobaldi.
Le manuscrit conservé à Paris est celui qui illustre au mieux les procédés de composition chez Frescobaldi et sera l’objet de ma communication. Il s’agit d’un petit volume oblong, typique de l’école romaine par son format et son réglage (six lignes pour la main droite et sept lignes pour la main gauche). Il comporte une simple reliure en parchemin, qui a toutefois la particularité significative d’être décorée des armes Borghese et plus spécifiquement celles du prince Marc’Antonio Borhese. Le volume comporte une quinzaine de pièces brèves, représentant les genres usuels pour clavier, toccate, variations et danses. Le manuscrit a été griffonné à toute vitesse et les caractéristiques univoques de la graphie permettent indubitablement de l’attribuer à Frescobaldi. L’examen de quelques concordances, partielles ou complètes, avec des pièces du répertoire imprimé (en particulier le permier livre de Toccate) et manuscrit (Chigi Q. IV.24 et Chigi Q. VIII.205-6), mais également de quatre variantes de la même corrente présentes dans ce manuscrit, nous permettront d’établir quelques conclusions sur la méthode de composition du “monstre des organistes”. Ce manuscrit est précieux à plus d’un titre. Il permet d’établir certaines attributions qui jusqu’à présent sont toujours restées très problématiques. Une signature musicale extrêmement intéressante apparaît dans une Aria detta la Frescobalda, qui ne ressemble en rien à la pièce homonyme publiée dans le second livre de Toccate. La dernière toccata du manuscrit est soustitrée avanti la Romanesca et est effectivement construite sur une basse de romanesca. Il s’agit d’une combinaison très insolite entre style libre et variation qui anticipe certaines des innovations figurant dans les derniers volumes publiés par Frescobaldi.
Ce manuscrit est un témoin privilégié de l’activité compositionnelle de Frescobaldi. Il permet de jeter un coup d’oeil dans l’atelier du musicien, élaborant, modifiant et gribouillant hâtivement ses pièces au clavecin. Il représente la toute première étape d’un long processus d’écriture et de réécriture, d’amélioration et d’amendements avant d’aboutir à l’oeuvre achevée telle qu’elle apparaît dans les volumes imprimés. Il s’agit d’un avant-texte, contenant quelques fragments rudimentaires, un écrit provisoire caractérisé par la variance et la pluralité, une exploration des possibles qui seront ultérieurement singularisés dans une oeuvre fixée et imprimée.
L'attività musicale presso i Pamphilj nel Sei- e Settecento
Nel 2008, su iniziativa dei professori Klaus Pietschmann (Università di Magonza) e Laurenz Lütteken (Università di Zurigo), e con il sostegno del Fondo Nazionale Svizzero, è stato dato avvio ad un progetto dal titolo ‘Musikalische Profilbildung des römischen Adels im 17. Jahrhundert: Lorenzo Onofrio Colonna und Benedetto Pamphilj’. Il progetto, che volge ormai al termine, viene condotto dalla dottoranda Lea Hinden, che si occupa principalmente delle cantate su testo di Benedetto Pamphilj, e da me, che, nell’ambito di un post-doc, sto conducendo indagini sui fondi archivistici romani. Vorrei dunque esporre i risultati finora raggiunti e illustrare le prospettive future relativamente alle mie ricerche d’archivio.
– La prima parte del progetto è stata dedicata soprattutto alla raccolta dei documenti musicali dell’amministrazione del principe Giovanni Battista Pamphilj presso l’Archivio Doria-Pamphilj di Roma. Ho trascritto sistematicamente tutti i documenti di interesse musicale contenuti nelle 104 filze dei Mandati di pagamento dalla data di morte di Camillo Pamphilj (1666) a quella di suo figlio Giovanni Battista (1709). Primogenito di Camillo e di Olimpia Aldobrandini, Giovanni Battista ha finora ricevuto poca attenzione da parte degli studiosi, dedicatisi soprattutto al più noto fratello cardinale Benedetto. Non esistono a tutt’oggi studi monografici a lui dedicati, né approfondite ricerche sulla sua committenza artistica,26 ma possiamo di certo affermare che la vita musicale alla sua corte fu assai vivace. Egli stesso, d’altronde, era musicista e suonava il violone. I risultati delle ricerche con uno studio introduttivo saranno pubblicati a breve. Resta invece da compiere, ci auguriamo in un prossimo progetto, lo spoglio dei Libri Mastri, numericamente superiori - si tratta di 151 unità - e contenenti materiale molto simile a quello dei Mandati. Sono documenti che integrano questi ultimi, né si distinguono da essi quanto a tipologia : ciò che talvolta manca nei Mandati si ritrova nei Mastri, e perciò sarebbe indispensabile un’indagine anche di tale sezione archivistica. Attraverso entrambi i fondi si riusciranno a delineare più chiaramente la natura e l’entità della committenza musicale presso la corte del principe. Auspicabile, infine, sarebbe ancora uno studio dell’ampio carteggio.
– La seconda parte del progetto, tutt’ora in corso, è volta alla raccolta sistematica dei documenti dell’amministrazione del cardinale Benedetto Pamphilj (sempre presso l’Archivio Doria-Pamphilj), che vanno ad integrare le precedenti indagini di Hans Joachim Marx.27 Si tratta complessivamente di 51 filze contenenti Conti e Giustificazioni dal 1666 al 1730 (anno di morte del cardinale), di cui Marx ha trascritto parzialmente 26 faldoni, arrestandosi al 1709.
– Imminente è anche lo studio del materiale d’archivio relativo al cardinale Carlo Colonna. Il progetto era inizialmente dedicato al principe Lorenzo Onofrio Colonna, ma l’attenzione si è via via spostata sul figlio Carlo (1665-1739), eletto cardinale nel 1706, e questo sia per non incrociare le ricerche parallele di Laura De Lucca,28 sia per il notevole interesse della sua committenza in relazione agli studi händeliani, sia perché è materiale che finora non è stato affatto esplorato. A differenza degli altri documenti relativi alla famiglia Colonna, il nucleo principale del suo archivio non è confluito nel Monastero di Santa Scolastica a Subiaco, ma si conserva presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, che tornerà presto accessibile agli studiosi.
La nostra ricerca archivistica sulla musica a Roma tra Sei- e Settecento, aveva inizialmente preso le mosse dal cardinale Benedetto Pamphilj per via della centralità concordemente riconosciutagli dagli studi storici e artistici. Nel corso delle ricerche, però, si è imposta alla nostra curiosità la figura quasi completamente trascurata del fratello maggiore Giovanni Battista, il quale, come primogenito e principe ereditario, condusse una vita altrettanto sfarzosa e diede all’attività musicale un impulso non minore. Anch’egli, alla stregua di Benedetto, era musicista - suonava il violone - e manteneva alle proprie dipendenze un consistente gruppo di musicisti, spesso con la duplice mansione di aiutanti di camera: tra questi ricordiamo i violinisti Carlo Antonini, Domenico Mayer, Antonio Maria Montanari e Giovanni Andrea Uberti, i violonisti Antonio Bononcini, Teodosio D’Annibale, Giovanni Travaglia (noto come ‘Giovannino del Violone’), il basso Giovanni Battista Petriccioli e il compositore Giovanni Battista Borri. Patrocinava inoltre la cappella musicale di S. Agnese in piazza Navona, chiesa di famiglia dei Pamphilj.
Le testimonianze documentarie offerte dalle carte dell’amministrazione del principe percorrono tutti i generi musicali: il repertorio sacro coltivato nelle chiese di S. Agnese e S. Nicola da Tolentino, quello drammatico delle composizioni celebrative o d’occasione (come la serenata fatta eseguire nel 1687 nel giardino di Montemagnanapoli dai migliori musicisti dell’epoca : Montalcino, Finalino, Lulier, Travaglia, Corelli, Fornari, Carpani…) e la musica da camera eseguita a palazzo, talvolta con l’intervento esterno di celebri castrati e acclamati strumentisti. Non sempre è chiaro se quest’ultima fosse eseguita per uso ricreativo, strettamente privato, oppure estesa alla dimensione sociale delle accademie. Il riferimento ad accademie eseguite a corte è esplicito solamente dal 1695 al 1696, quando tra i provvigionati figura « Ant.o Bononcino Mro per li SS.ni di Violone, con che anche debba intervenire la sera alle Accademie in Ag.to si dovrà porre per s. 5 per d.o mese ». Tra gli ospiti di rilievo merita un cenno Alessandro Scarlatti, che il 20 giugno 1689 riceve 6 scudi « per esser venuto a sonare da S. E. ».
Tutti i dati provenienti dall’amministrazione di Giovanni Battista sono stati esaminati sincronicamente, cioè in rapporto all’attività musicale parallelamente promossa da Benedetto; e diacronicamente, in relazione alle vicende più significative della storia politica ed economica a cavallo di secolo. Viene così riassunto, in forma di grafici e prospetti, l’andamento delle spese musicali, teatrali o in generale spettacolari, attraverso i rispettivi bilanci; particolarmente significative dell’importanza attribuita alla musica e dell’incidenza esercitata su questa dalla crisi economica di fine Seicento sono le variazioni nel numero dei musicisti assunti a ruolo nel corso degli anni, ma anche la loro levatura professionale, commisurata alle rispettive retribuzioni.
Su un piano più propriamente metodologico, vengono discussi pregi e limiti della ricerca archivistica. Evidente è la sua utilità ai fini della storia e soprattutto della sociologia della musica (da essa si ricavano informazioni preziose sulla destinazione eminentemente ‘sociale’ della produzione musicale, sullo status del musicista, sul rapporto patronoartista; e, ove possibile, ci consente di ricostruire la personalità dei singoli promotori di attività musicale, anche in relazione al loro impegno nei confronti di altre arti),ma anche della conoscenza della prassi esecutiva etc.
Per contro, occorre chiedersi in che misura tali dati possono rivelarsi fuorvianti, suggerendo prospettive parziali per via di eventuali lacune nella trasmissione dei documenti, ma anche e soprattutto degli specifici fini a cui tendevano la loro redazione e archiviazione: si tratta infatti di documenti rispondenti alle necessità dell’amministrazione, che sarebbe ingenuo considerare alla stregua di una cronaca della vita musicale a corte. (Per esempio, quali informazioni era ragionevole annotare e quali omettere da parte degli amministratori? E in che misura la quotidianità delle prestazioni dei musicisti di ruolo sfugge alle esigenze di una puntuale registrazione contabile?)
Lea Hinden (Universität Zürich)
La corte dei Pamphilj nel Sei- e Settecento si presenta come uno dei più attivi e artisticamente ricchi nella Roma barocca. Il mecenatismo musicale ed artistico di questa famiglia nobiliare è descritto in vari studi e ricerche nei diversi campi delle discipline umanistiche. Soprattutto sul mecenatismo musicale sono state pubblicate importanti ricerche sui Pamphilj. La seguente presentazione cerca di arricchire la storia della committenza artistica e musicale di questa famiglia aristocratica e di contribuire con uno specifico studio sulla produzione lirica e cantatistica alla miglior comprensione del mecenatismo musicale barocco.
Dal progetto di tesi di dottorato sulla formazione di un’identità attraverso l’attività artistica e la committenza musicale nel Seicento – su esempio di Benedetto Pamphilj – vorrei presentare in seguito la metodologia della mia ricerca e la prospettiva di detta per la ricerca sulla cantata romana e sulla poesia per musica. Lo studio focalizza sull’attività artistica del futuro cardinale Benedetto Pamphilj (1653-1730) come autore di una vasta produzione di testi di cantate ed arie. Pamphilj è stato visto dalla ricerca soprattutto come mecenate e librettista di oratori. Il presente studio si occupa invece della produzione più intima del cardinale, dell’attività musicale presso la sua corte che include le tante cantate scritte per le sue accademie e conversazioni settimanali. La ricerca si basa primariamente su due manoscritti di testi di arie e cantate del cardinal Pamphilj che sono conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana a Roma. La tesi prevede la pubblicazione dei testi di Pamphilj contenuti in questi due volumi in forma di un catalogo alfabetico. L’introduzione all’edizione include l’analisi letteraria e musicale delle liriche e la loro messa in musica da parte di compositori romani e stranieri. L’argomento è sviluppato soprattutto alla luce degli studi recenti sulla vita economica e sociale di quest’epoca e cerca di interrogarsi sul valore sociale della poesia per musica presso l’aristocrazia romana. Queste formulazioni di domande più generali sulla vita musicale del Seicento vengono analizzate poi attraverso quel corpus abbastanza completo delle due raccolte di testi di cantate del cardinale. Si cerca di spiegare con questo studio esemplare l’importanza e la funzione del poetare di Pamphilj per la nobiltà romana e il ruolo sociale o politico che può avere la sua produzione lirica.
I due manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana costituiscono la fonte principale della produzione cantatistica di Benedetto Pamphilj. Una minima parte delle liriche è presente in un’altra Miscellanea di componimenti poetici nella Biblioteca Corsiniana Lincei a Roma. Complessivamente, la sua produzione lirica comprende quasi cento testi, di cui settanta sono stati musicati. L’identificazione dei suoi testi si verifica attraverso il confronto degli incipit della fonte letteraria con gli incipit o i titoli elencati nelle Giustificazioni dell’archivio Doria Pamphilj a Roma. Così la ricerca non è basata solo sulla fonte principale letteraria e sui vari manoscritti musicali sparsi per il mondo, ma anche su dati archivistici. In stretta collaborazione col progetto di Alexandra Nigito che punta su una trascrizione cronologica completa di tutti i documenti rilevanti per il mecenatismo musicale, si può ricostruire la produzione letteraria della poesia per musica di Benedetto Pamphilj e dare un’immagine abbastanza completa della sua produzione di cantate. Non di tutte le liriche che sono documentate nelle Giustificazioni si trovano la fonte musicale, cioè la partitura. Questo è il caso per esempio delle produzioni di Carlo Francesco Cesarini o di compositori romani di fama locale come Francesco Messi o Vittorio Chiccheri. Calcolando anche questi casi documentati, ma senza fonte pervenuta, sono stati musicati quasi due terzi delle liriche del cardinale. Questa percentuale sembra abbastanza alta, visto che per i testi non musicati si possono trovare delle ragioni plausibili formali. Queste liriche sono formalmente poco adatte per essere musicate, quando per esempio contengono quasi solo recitativi.
Il contenuto di una cantata era quindi decisivo per la messa in musica. Siccome l’origine e lo scopo di una cantata è spesso collegato con un evento preciso che chiede anche un soggetto adatto al committente o all’occasione di rappresentazione, il contenuto ci può dare informazioni sulla funzione sociale di una composizione o sui gusti del tempo o del committente. La divisione delle liriche di Pamphilj in diversi temi dimostra l’importanza o meno di alcuni concetti o magari l’estensione di questi ad altri generi musicali o addirittura ad altri ambiti artistici. Oltre alla consueta lirica amorosa, Pamphilj nasconde per esempio dietro delle metafore nautiche o dietro un sottofondo pastorale, la sua lirica anticortigiana. Parla male dell’istituzione della corte e critica la società cortigiana confrontandola con la convivenza ideale arcadica. L’autore rappresenta delle strutture e gerarchie politiche e sociali attraverso delle personificazioni di vari fiori come la Rosa, il Giglio o la Viola – tutti e tre anche con valenza forte come dei simboli religiosi. Essendo la cantata un genere d’occasione, alcune liriche hanno una funzione encomiastica ed elencano già nel titolo i loro destinatari. L’autore usa varie figure della mitologia greca per sottolineare l’importanza delle persone o luoghi lodati. La produzione cantatistica aveva così una valenza rappresentativa e serviva come strumento per coltivare le relazioni sociali e politiche fra l’aristocrazia italiana e straniera. I documenti d’archivio testimoniano un uso delle sue cantate a fine rappresentativo quando – su ordine del cardinale stesso – venivano spedite in singoli fascicoli o in antologie riccamente ornate e legate a rappresentanti dell’aristocrazia romana e forestiera. Spesso Pamphilj inviava delle cantate che aveva scritto lui stesso o cantate che godevano una vasta diffusione perché erano state musicate da compositori illustri come Händel o Scarlatti. Si potrebbe supporre che il poetare oltre ad essere un passatempo e un diletto veniva usato anche come mezzo rappresentativo allo scopo di affermarsi e magari differenziarsi nella società aristocratica. Visto che i Pamphilj non facevano parte della nobiltà romana antica e dovevano prima qualificarsi e guadagnarsi un rango sociale nella gerarchia aristocratica, la diffusione delle proprie cantate poteva aiutare a recuperare una mancata radicazione nell’aristocrazia romana.
Una funzione rappresentativa della produzione di cantate si accenna anche osservando più dettagliatamente la fonte, i diversi tipi di manoscritti, in cui sono tramandati le cantate su testo di Pamphilj. In generale si può constatare che tutti i manoscritti sono in un formato grande, abbelliti, legati e riccamente illustrati. La maggior parte di questi manoscritti di pregio serviva probabilmente come regali per rappresentanti dell’aristocrazia o come esemplari di collezione per la propria biblioteca.
Fra le tante fonti musicali contenendo liriche di Pamphilj attirano l’attenzione tre manoscritti che mettono in evidenza attraverso un indice o il frontespizio l’autore del testo. È il caso per esempio di un manoscritto della collezione Santini della Diözesanbibliothek a Münster in
Germania, dell’antologia riccamente illustrata e conservata nella Biblioteca Casanatense e di un altro manoscritto custodito presso la biblioteca dell’istituto “Nicolò Paganini” a Genova. Tutti e tre i manoscritti contengono più cantate del cardinale e nominano l’autore nobiliare. In un caso, l’autore è messo in scena anche attraverso dei segni araldici nell’illustrazione della lettera iniziale di una cantata.
Nel caso di Benedetto Pamphilj si può osservare un’attività artistica di produzione e trasmissione delle sue cantate più o meno regolare durante quasi 50 anni. La sua produzione lirica comincia poco dopo la sua elezione come cardinale diacono nel 1681. Seguono anni di più alta o bassa attività letterale. Insieme ad alcune singole copie negli anni ottanta, si può vedere attraverso i documenti d’archivio un culmine di produzione fra gli anni 1688 e 1691 e nell’anno 1694. Dopo quest’anno fruttuoso – il cardinale era appena tornato da Bologna – segue una pausa quasi completa fino all’anno 1699. Si ricorda che nel 1697 sono stati chiusi i teatri Capranica e Tordinona a causa dei severi divieti di papa Innocenzo XII, Antonio Pignatelli. L’attività cantatistica di Pamphilj riprende negli anni 1703 e continua quasi regolarmente almeno fino al 1717. Sembra così che la produzione di lirica durante il Regno di Clemente XI, Giovanni Francesco Albani, sia stata più facile e che Pamphilj si era adattato prima ai divieti papali, limitando la sua produzione di testi laici.
La fortuna di avere una raccolta di testi per musica delimitata com’è il caso dei due manoscritti vaticani di Pamphilj, permette di vedere la ricerca sulla cantata dall’altro lato, partendo dal testo. Visto che la massima parte degli autori di cantate è anonima, il lavoro sulla poesia per musica delle cantate è un lavoro importante da fare. Era il poeta a delineare tramite la scelta dei versi, la struttura finale della cantata e la sua divisione in recitativo ed aria. Per questo è importante iniziare la ricerca dal testo ed è interessante vedere la struttura narrativa dei testi lirici. Nella produzione di Pamphilj si possono osservare certe strutture e strategie a dividere il testo drammatico in recitativo ed aria
attraverso l’uso del discorso diretto. L’autore era molto consapevole della struttura musicale che implicavano i suoi versi. Spesso Pamphilj divide il recitativo dall’aria anche con l’aiuto di ritornelli testuali che hanno una forte valenza di riconoscimento e offrono al compositore tante possibilità di forme musicali da usare. Di più l’autore mette in evidenza la parte moralizzante della cantata e lo scopo didattico, concludendo i testi con versi finali di carattere proverbiale o morale per ricordare il pubblico l’argomento essenziale della cantata. Spesso il contenuto della cantata offre l’esempio positivo o negativo – alcune volte tramite vicende mitologiche – e i versi finali danno il consiglio se seguire o meno l’esempio appena raccontato.
L’Amor per vendetta o vero L’Alcasta: opera e mecenatismo tra Roma e Venezia nella seconda metà del Seicento
As it is well known, the first commercial opera theater opened in Venice in 1637. Slowly but inexorably over the centuries opera migrated from the court to the public theater, and it went from being the entertainment of an elite of spectators to becoming a popular event attended by thousands of people across the world. The shift from the court to the theater, however, was not as smooth and sudden as we might imagine. In fact, during the second half of the seventeenth century these two systems of operatic production coexisted, and their activities inevitably intertwined. An opportunity to examine the interaction between the worlds of court and commercial opera comes from new archival documentation I recently found on a seventeenthcentury libretto, Giovanni Filippo Apolloni’s L’Amor per vendetta o vero L’Alcasta, about which very little was hitherto known. These documents shed light on the origins of this libretto and its musical settings and allow us to glance at the complex social networks that connected the two seemingly different worlds of private and public opera. Furthermore, the story of Alcasta raises crucial questions on issues of “authorship” and “authenticity,” also calling for a reconsideration of the importance that libretti had in the context of early modern opera.
I due testi d'opera. Per un’analisi dell'opera romana seicentesca fra libretto e partitura
“Alla base di ogni opera in musica stanno due ‘testi’: il libretto e la composizione musicale. Essi sono autonomi, sono concorrenti (nel doppio significato di ‘concorrere ad un risultato’ e di ‘essere in concorrenza’), ma non sono autosufficienti, bensì necessari l’uno all’altro”.
Così A. Roccatagliati ha descritto quello che io, prendendo spunto di un saggio di L. Bianconi, vorrei definire il paradosso della composizione dell’opera in musica. Da un lato siamo di fronte al testo del librettista, cioè a un testo letterario che, pur essendo destinato a venire messo in musica da parte del compositore, possiede una drammaturgia e una struttura metrica-formale descrivibili come tali – nonostante il fatto che esse dipendano in gran parte da fattori non proprio letterari (come i mezzi disponibili per la rappresentazione e le esigenze dei cantanti). Dall’altro lato siamo di fronte al testo del compositore, cioè alla partitura che ci offre una realizzazione musicale del libretto e che non esisterebbe senza il lavoro del librettista, ma che può anche rispecchiare (a dispetto delle strutture letterarie) le scelte stesse del musicista talvolta contrarie all’autorità del librettista. Secondo me la riflessione di questo paradosso può avere risultati interessantissimi per l’analisi dell’opera musicale nel suo insieme, e specialmente nel seicento quando – per così dire – il ‘linguaggio operistico’ (sia letterario che musicale) fu sviluppato.
Cito soltanto due esempi per chiarire meglio questo punto di vista. Come ha dimostrato P. Fabbri, la differenza fra versi sciolti (versi recitativi) e versi strutturati (versi musicali) sta alla base del libretto d’opera italiano fin dagli suoi inizi. In questa maniera veniva segnalato al compositore quando doveva scrivere un brano in stile recitativo oppure in stile d’aria, cosicché erano a disposizione due modi diversi di parlare musicalmente sulle scene. Ora è interessante osservare come St. Landi, nel suo S. Alessio (1632), non si limiti a differenziare tra un parlare ordinario e un ‘parlare cantando’, ma inserisca un terzo livello nella sua partitura. Il libretto di quest’opera è pieno di messaggi del cielo che vengono riferiti da persone che li hanno sentiti. In questi casi Landi usa uno stile recitativo quasi salmodico che si differenzia nettamente dal parlare ordinario (espresso, quest’ultimo, tramite uno stile recitativo molto più variato) e che sottolinea udibilmente che tali brani appartengano a un mondo diverso dal resto. Se si dà un’occhiata al libretto di G. Rospigliosi si deve constatare che questa distinzione è dovuta alla decisione del solo compositore, perché il librettista non aveva differenziato i messaggi del cielo in nessun maniera dal loro contesto. Un altro caso sono le scene di lettera in cui vengono recitati messaggi di persone assenti. Nel S. Alessio, la lettura ad alta voce della lettera del santo morto è stata formulata dal librettista in cinque strofi di un endecasillabo, due settenari e tre quinari in rime baciate (aabbcc). Tale struttura abbastanza formale sembra essere dovuta al fatto che la recitazione di una lettera è diversa dal discorrere abituale. Queste strofe, però, non trovano corrispondenza nella partitura, ma sono messe in musica in uno stile recitativo commune e senza ricorrenze strofiche alcune. In altre opere d’epoca, invece, le scene di lettera sono trattate come una cosa a parte anche musicalmente: quando, ad esempio, il librettista scrive una lunga serie di endecasillabi rimati non reperibili in nessun altro luogo del libretto, e quando il compositore corrisponde a questo provvedimento con uno stile recitativo piuttosto monotono per esprimere la voce che sta leggendo.
Nel primo caso il compositore ha dato un’interpretazione del testo del librettista che di sé non portava alcun significato particolare (sonante o strutturale che sia) ai messaggi del cielo tranne il loro contenuto. Nel secondo caso il librettista ha fornito al compositore una struttura ben diversa dal resto non solo per l’occhio ma anche per l’udito (in una eventuale – e sia pure simbolica o mentale – recitazione parlata del testo come dramma), a cui il compositore ha scelto di reagire o no con i suoi propri mezzi.
Premesso questo vorrei discutere un caso esemplare: l’opera L’Orfeo di due autori romani, Francesco Buti e Luigi Rossi (Parigi 1647). Benché non si tratti di un’opera romana in senso stretto mi pare un’ottima scelta, visto che rendiamo omaggio a Jean Lionnet, che nel booklet dell’unica registrazione di quest’opera finora esistente ne ha scritto righe molto stimolanti, ed anche perché la situazione dei fonti in questo caso permette una ricostruzione dettagliata della creazione dell’opera fra libretto e partitura. La mia relazione avrà dunque due parti: per prima cosa parlerò della concezione e della drammaturgia del libretto come testo e anche di come fattori esterni l’abbiano influenzato; poi parlerò delle soluzioni del compositore e specialmente di come egli abbia interpretato e modificato le strategie e le indicazioni del librettista rispetto alla composizione musicale del testo.
Come mostrerò, la prima determinante fondamentale del libretto erano le scene e macchine teatrali preesistenti a cui il librettista doveva adattarsi : anche se si trattava ovviamente di scene tipiche all’epoca (come un tempio, un giardino etc.), toccava al librettista trovare motivi per il loro uso. Per questo verranno ricostruite, sulla base di descrizioni contemporanei dell’opera, gli effetti visivi dello spettacolo come un primo livello della stesura del libretto. Già a questo livello il librettista deve avere concepito un bozzetto della trama che aveva in mente di scrivere. L’elaborazione della trama, però, si riferiva chiaramente a un secondo livello, cioè alla considerazione degli cantanti disponibili per la rappresentazione. C’erano presenti alla corte francese due giovani, ma nondimeno molto stimati castrati soprani: Marc’Antonio Pasqualini e Atto Melani. Ciò contribuiva al fatto che L’Orfeo finiva di diventare una delle prime opere di castrati nel senso che i ruoli dei due protagonisti maschili furono interpretati di questo tipo di cantante. (La prassi di assegnare ai castrati ruoli maschili invece di feminili era, infatti, nata a Roma negli anni trenta del XVII secolo.) Ma c’è qualcosa di più : siccome il librettista non voleva dare ragione ad uno dei castrati di sentirsi respinto a un rango inferiore (e questo sulle scene come nella vita sociale della corte), e per conseguenza essere invidioso all’altro, era costretto ad inventare ed elaborare una trama con due protagonisti uguali. Mentre nelle prime opere musicali dedicate al mito di Orfeo quest’ultimo è il protagonista assoluto delle vicende, nella versione di Buti, Orfeo (interpretato da Atto Melani) ha il suo antagonista nella figura di Aristeo (interpretato da Marc’Antonio Pasqualini). Nelle versioni classiche del mito di Orfeo, Aristeo viene menzionato soltanto da Vergilio nelle sue Georgica, dove la storia di Aristeo funge da cornice alla storia di Orfeo. (Nella versione vergiliana, Aristeo è responsabile della morte di Euridice.) Ma nell’opera di Buti le loro vicende sono indissolubilmente intrecciate e hanno quasi la stessa importanza.
Perciò si può dire che L’Orfeo sia un’opera di cantanti nel senso che loro abbiano avuto un ruolo decisivo per la concezione del libretto. Come vorrei dimostrare attraverso sia una ricostruzione del cast originale sia uno schema della doppia trama dell’opera, questo vale anche per la distribuzione delle arie, dei duetti e delle scene spettacolari. Al tempo stesso cominciano qui le divergenze fra la concezione originale del testo e la sua composizione musicale. Discuterò dettagliatamente due casi in cui il compositore ha modificato e interpretato nuovamente le opzioni offertegli o suggeritegli dal librettista.
Il primo caso riguarda la scena nella quale vengono celebrate le nozze di Orfeo ed Euridice. Mentre alcuni personaggi cantano in alternanza una canzone, si accorge che le torce si estinguono – cosa che si prende come malaugurio. Nel libretto questo improvviso rovesciamento della situazione (prima la gioia, poi il terrore) viene espresso non soltanto tramite le esclamazioni tipo “Ahi che veggio ?”, “Ohimé lasso !” e così via, ma in primo posto tramite il fatto che l’ultima strofa della canzona viene interrotta (mancano gli ultimi due versi). È ovvio quale fosse l’intenzione del librettista: intendeva una strofica composizione della canzona (in tedesco si direbbe una Strophenlied). Ammesso questo, gli spettattori avrebbero sentito subito che succedeva qualcosa di inatteso perché la canzona non trovava fine. A Luigi Rossi, invece, questo non bastava, oppure egli voleva avere più di varietà nel corso della scena : non ha messo in musica la canzone stroficamente, ma diversamente per ognuna strofa. E per compensare l’effetto perso nel momento dell’accorgimento del malaugurio ha introdotto un nuovo mezzo puramente musicale: la tonalità scivola, da un momento all’altro, da un ben stabilito sol maggiore a un insicuro sol diesis (la terza di mi maggiore).
Nel caso appena descritto l’intenzione del librettista e del compositore vanno nella stessa direzione, anche se quest’ultimo ha dato una nuova interpretazione alla drammaturgia inerente del testo. In altri casi, però, la drammaturgia del libretto è stata modificata dal compositore (sebbene qualche volta in collaborazione con il librettista stesso). Per darne un esempio : il librettista Buti ha previsto dei lamenti per ognuno dei protagonisti (Aristeo, Euridice e Orfeo). Siccome questo tipo di scena era più d’ogni altro adatto a dare occasione agli interpreti di dimostrare le loro abilità come cantanti e attori, si può vedere come il librettista mirasse a trattare tutti e tre più o meno equivalentemente. Solo il fatto che sono presenti due lamenti per Orfeo, e non solo uno come per Aristeo e Euridice, lascia riconoscere il rango superiore di Orfeo come mitico cantante. Ma in compenso Aristeo partecipava in una scena d’ombra (assieme a Euridice) e in una scena di follia: si vede ancora una volta come la concorrenza fra Melani e Pasqualini risultasse in una notevole rivalutazione del ruolo di Aristeo che quasi minacciava di superare il ruolo di Orfeo.
Nella partitura di Rossi, invece, il rango elevato di Orfeo si fa sentire attraverso la forma, la lunghezza e la strumentazione dei suoi lamenti. Essi contengono non solo brani recitativi (come quello di Aristeo), ma anche brani ariosi, sebbene nell’ultimo lamento di Orfeo non ci siano indicazioni metriche che richiederebbero tale misura da parte del compositore. I lamenti di Orfeo, inoltre, venivano accompagnati – come anche la sua preghiera davanti a Plutone – di ritornelli strumentali che simboleggiavano la lira con cui il mitico cantante accompagna se stesso su raffigurazioni contemporanee. E il primo lamento di Orfeo nella partitura è molto più lungo che nel libretto, offrendo ad Atto Melani un’aria in due strofe di più rispetto alla concezione originale.
Tale scenario di un non sempre facile e ogni tanto precario equilibrio fra libretto e partitura – fra pretese letterarie e fattori esterni, esigenze di cantanti e gusti musicali – getta luce sul processo di composizione di quello che era il solo scopo dei ‘due testi’: l’evento della rappresentazione di un’opera in musica.
Le poesie per musica del Cardinale Antonio Barberini nel cod. vaticano Barb. Lat. 4203
Il codice Barb. Lat. 4203 della Biblioteca Apostolica Vaticana appartiene alla nota collezione di manoscritti per la maggior parte redatta, come già dimostrato da Gloria Rose e da Margaret Murata,24 da Marc’Antonio Pasqualini, una delle più eminenti personalità legate all’ambiente musicale barberiniano. Una sezione di questo manufatto, elegante e chiaramente destinato a uso privato, contiene brani musicali il cui testo poetico è attribuito al Cardinale Antonio Barberini. Si tratta di 12 composizioni, molte delle quali musicate dallo stesso Pasqualini.25 Nonostante il corpus non sia particolarmente ampio, esso appare già sufficientemente significativo per proporre alcune considerazioni, comunque solo preliminari a successivi approfondimenti. Innanzitutto occorre precisare che esistono problemi di attribuzione, legati al fatto che la paternità di alcuni di questi testi poetici in altre fonti viene assegnata ad altro autore. La ricorrenza del nome di Giovanni Lotti, altra figura di rilievo nella compagine artistica che faceva capo alla famiglia Barberini, rimanda a una presumibile circolazione di materiali in un ambiente che si nutriva di consessi accademici, i cui frutti potevano rappresentare anche un prodotto a più mani, per il quale il concetto di paternità assumeva contorni inevitabilmente più sfumati. In parte ne è prova la rarità dell’approdo alle stampe delle opere dei poeti dell’epoca o la loro pubblicazione postuma (e dunque spesso sfuggita a un controllo diretto dell’autore). Anche la raccolta di Poesie latine e toscane del Lotti (che apparteneva alla nota Accademia barberiniana degli Umoristi) venne pubblicata postuma nel 1688, a distanza di due anni dalla morte del poeta. Al di là dei problemi di attribuzione, sui quali occorrerà lavorare approfonditamente in futuro, in questa sede ci si limiterà esclusivamente a fornire una analisi dei testi poetici attribuiti al Cardinale Antonio, allo scopo di tratteggiare le caratteristiche di questa poesia per musica. L’analisi strutturale dei testi, indagati sul piano lessicale, retorico, metrico e soprattutto ritmico, rivela aspetti interessanti e denuncia la costruzione di un discorso improntato allo sperimentalismo poetico-musicale. Infatti queste poesie, appartenenti tutte alla sfera spirituale e allegorico-morale, se in alcuni casi presentano una struttura regolare (come quella del sonetto), in altri affidano la versificazione a ricercatezze che trovano interessanti riscontri sul piano musicale. Segno di un gusto poetico, di un esercizio intellettuale e di una volontà programmatica nel campo dell’espressione poetico-musicale di cui l’ambiente barberiniano – e gli stessi Cardinali Francesco e Antonio in prima persona – si fecero, come è noto, vivaci promotori.
Questioni di prassi esecutiva policorale nella Chiesa del Gesù
La chiesa madre della Societas Iesu, la Chiesa del Santissimo Nome di Gesù, durante tutto il secolo XVII, rappresenta uno dei principali luoghi di Roma in cui, con regolarità, avvennero esecuzioni di musiche policorali. Al più tardi nel 1584, la chiesa disponeva di una propria cappella musicale, come sembra confermare un manoscritto di questa data, dal titolo "Ordini, et Osseruationi della nostra Chiesa per tutto l’Anno"1 che enumera espressamente i vari compiti che "li Cantori" della chiesa sono tenuti a soddisfare nell’ambito liturgico. Benché l’ordinaria prassi domenicale prevedeva l’esecuzione di musiche ad un solo coro, o al massimo di due cori, già nel primo decennio del Seicento si trova conferma della possibilità di accompagnare singole celebrazioni in occasioni festive anche con tre complessi, sia vocali che strumentali. Ancora prima che le esecuzioni a tre e quattro cori divennero una sorta di ‘norma’ nelle massime festività al Gesù, nel 1616 ebbe luogo una messa con la partecipazione di un totale di otto cori, un evento evidentemente del tutto straordinario che, secondo Giacinto Gigli, "fu senza dubbio cosa non più intesa sino a quel tempo".2 Anche se nella Chiesa del Gesù una simile rappresentazione, durante tutto il Seicento, non sembra aver avuto luogo una seconda volta – almeno non ne possediamo alcuna conferma –, sono numerose le testimonianze di musiche a tre o quattro cori che per
decenni caratterizzarono le grandi festitivà della Chiesa, tra cui la Festa della Circoncisione ossia la ricorrenza liturgica del Nome di Gesù (1 gennaio) e le feste dei più importanti santi dell’ordine, S. Ignazio da Loyola (31 luglio) e S. Francesco Saverio (3 dicembre).
Intorno alla questione della policoralità al Gesù disponiamo di due importanti ‘unità’ documentarie sinora poco considerate, nonostante le varie ricerche condotte sulla storia musicale in ambito gesuitico. Vi è, principalmente, quello che rimane dell’archivio musicale della chiesa. Ad una prima visione, il repertorio conservatovi non sembra indurre a valide conclusioni riguardo la musica policorale, ma ad un esame più dettagliato dello stesso, si giunge a dei risultati sorprendenti: proprio quella ristretta quantità di materiali pervenutici è in grado di offrire delle visioni altamente illuminanti. Oltre ai fondi archivistici vi è un documento autentico, quanto fondamentalmente ignorato dalla ricerca: l’edificio stesso della chiesa che – caso quasi unico a Roma – sin dagli inizi del XVII secolo non ha subìto rilevanti trasformazioni nella sua struttura architettonica. Questa importante testimonianza edile, insieme alla documentazione storica largamente nota, permette delle conclusioni sulla prassi esecutiva che arrichiscono in alcuni punti fondamentali le nostre conoscenze sulla policoralità seicentesca di stampo romano.
La conferenza cercherà di schizzare brevemente la storia delle esecuzioni policorali, documentate presso la Chiesa del Gesù durante il Seicento, per poi illustrare alcune importanti fonti provenienti dall’archivio musicale, oggi disperso e in gran parte perduto. Con l’aiuto dell’antico inventario dell’archivio, si tenterà di identificare alcune autentiche composizioni a quattro, sei e otto chori ancora esistenti ed analizzarne il contenuto, in particolare dal punto di vista della prassi esecutiva. In un secondo passo, saranno illustrate le condizioni ‘logistiche’ basilari per le esecuzioni musicali a più cori all’interno della chiesa seicentesca, considerando sia la disposizione delle cantorie, sia la presenza e l’ubicazione dei vari organi.
Uno sguardo sinottico tra il materiale musicale a parti staccate, le autentiche presupposizioni spaziali all’interno dell’edificio e le testimonianze documentarie, permette, infine, di stillare un quadro straordinariamente dettagliato delle possibilità di esecuzione, ma anche dei limiti praticiben concreti nella prassi policorale. Aspetti la cui validità, con ogni verosimiglianza, non si limiterà al caso specifico della Chiesa del Gesù.
La musique intérieure. Perspective méthodologique
Lorsque l’on s’intéresse aux usages de la musique dans la dévotion, et notamment à la méditation, apparaît rapidement un hiatus entre ce que l’on sait des exercices spirituels et les pratiques musicales effectives; car les témoignages contemporains confirment le silence qui entourent les manifestations les plus abouties de la méditation individuelle.
À côté des exercices ignatiens, qui ne représentent qu’une méthode parmi d’autres, la congrégation de l’Oratoire a publié sa propre méthode de méditation, les Essercizii spirituali d’Agostino Manni, auxquels s’ajoutent quelques autres textes conservés notamment à la Biblioteca Vallicelliana.
Contrairement aux exercices ignatiens, les exercices oratoriens n’étaient pas réservés à des Religieux rompus aux méthodes d’introspection et d’oraison mentale. Les exercices individuels se conçoivent comme un complément de pratiques collectives de dévotion, en particulier les oratoires, terme qui désigne à la fois des séances de réflexion et de prière et les confraternités issues de ces réunions régulières. À l’origine, Philippe Néri avait promu des réunions collectives, qui mêlaient un échange de parole et des prières en commun. Pietro Giacomo Bacci, l’un des premiers historiens de la congrégation, a décrit le fonctionnement de l’oratoire primitif. En croisant ses descriptions avec d’autres sources ponctuelles (telles les dépositions du procès en canonisation de Néri et les correspondances), on peut reconstituer les différentes structures d’exercices collectifs.
La musique évoquée dans ces témoignages hagiographiques est toujours la laude spirituelle, dont l’Oratoire romain fut l’un des foyers les plus actifs en Italie centrale après le concile de Trente. Pourtant, la laude polyphonique, par laquelle on tentait d’adapter à la Réforme catholique, une tradition toscane, s’essouffla rapidement et on lui préféra bientôt des répertoires plus élaborés. Ce n’est qu’en 1619 qu’un nouveau recueil destiné à ces exercices fut imprimé. Il s’agit d’une monumentale anthologie de madrigaux spirituels fut éditée, vraisemblablement à la demande de l’Oratoire, pour les oratoires vespéraux des dimanches d’hiver, de la Toussaint à Pâques, le Teatro armonico spirituale de Giovanni Francesco Anerio (édité en 1617). Bien qu’il emprunte encore au répertoire poétique de la laude, il marque la rupture avec la génération précédente.
À cette présence musicale attestée dans les exercices collectifs fait écho une présence non moins importante de la musique dans l’exercice individuel, que l’on peut étudier à partir de témoignages personnels (de Giovenale Ancina) et surtout à partir des textes des Exercices de Manni, qui distingue deux modes dévotionnels à l’oeuvre dans les exercices, dont la complémentarité illustre précisément ce double mouvement d’aspiration et de réception intime qui caractérise la méditation.
La structure des exercices met en évidence l’usage de poésies versifiées au sein de la prose, qui créent un écart par leur structure et par le rôle qu’on leur confie. Si l’on regarde en détail le déroulement des exercices collectifs (dont on a des musiques, mais pas les textes complets) et individuels (pour lesquels on a des textes, mais dont on ignore s’ils étaient effectivement chantés), on peut tenter de répondre à la double question de la présence et du rôle de la musique.
Les madrigaux du Teatro Armonico Spirituale, groupés par deux, encadraient vraisemblablement une parole récitée ou une lecture, peut-être un sermon ; composé à une époque où la structure des exercices spirituels est moins documentée, ce recueil confirme la pérennité de la structure bipartite, à laquelle correspond une double fonction musicale : le madrigal spirituel aurait été utilisé avant – en introduction émotionnelle et thématique à l’exorde – et après l’homélie, se chargeant dans certains cas de l’application qui deviendra si commune dans les madrigaux dramatiques spirituels et les oratorios.
Si, dans les exercices collectifs, la présence sonore de la musique ne fait pas question, son rôle permet d’avancer quelques hypothèses sur la forme d’interprétation des poésies que prévoyaient les exercices individuels. Dans les Essercizi de Manni, la laude, comme l’hymne, crée ici aussi rupture, et contraste avec le texte qui le précède et la suit.
Les laudes ne sont pas introduites en vertu d’une nécessité thématique ou de leur seul contenu sémantique. La complémentarité entre la poésie versifiée et l’exercice dans son entier joue sur des ressorts plus subtils. D. Filippi a montré par exemple l’identité de structure entre l’exercice en son entier et la laude qu’il contient29 ; il me semble qu’on peut avancer encore d’autres pistes, en s’appuyant d’une part sur la foi des Oratoriens dans l’énergie du vers, et d’autre part, sur l’alternance entre texte prescriptif (la prose) et prière (la laude ou l’hymne), cette dernière étant marquée par une accentuation pathétique caractéristique et de l’Oratoire, et de cette génération. La laude est une réitération ou plus exactement une mise en pratique de ce qui est préconisé, et accentue le passage d’un discours prescriptif, probablement lu intérieurement, à un texte qui devra être proféré. La nature précise de cette sonorisation demeure hypothétique et certainement variable.
Un troisième élément de réflexion serait, ici, le rôle de la mémoire. La musique n’est pas seulement un haut degré de vocalisation et d’engagement physique : elle est aussi, thématiquement et donc mentalement, un sujet central dans l’élévation de l’âme. Or les Oratoriens, comme leurs contemporains, ont utilisé les vers et le chant comme des supports privilégiés de la mémorisation, dans le catéchisme en particulier. La multiplication de textes sonores, prières et chants, invite à penser que leur rôle dans les exercices reposerait aussi sur une mémoire sonore drainée par la forme du poème, qui relève encore, à certains égards, par sa structure, de cette harmonie au monde, reflet céleste.
Nell’ambito del progetto di ricerca MUSICI “I musicisti europei a Venezia, Roma e Napoli (1650-1750) : musica, identità delle nazioni e scambi culturali”, si è svolto il 3 e 4 giugno il Convegno “La Musica a Roma nel Seicento. Studi e prospettive di ricerca”, con il patrocinio della Deutsche Forschungsgemeinschaft, l’Agence Nationale de la Recherche, il Centre de Musique Baroque de Versailles, il Centre Culturel Saint Louis de France e l’École française de Rome, che ha anche offerto al sua ospitalità presso la sua sede di Piazza Navona.
Le due giornate di studi sono state dedicate alla memoria di Jean Lionnet, esperto senza pari del repertorio musicale dell’epoca, i cui lavori hanno aperto nuovi e proficui percorsi di ricerca.
Dopo il saluto di accoglienza di J.-F. Chauvard (Direttore degli studi per la storia moderna e contemporanea, École française de Rome), il noto musicologo Jean Duron (Centre de Musique Baroque de Versailles) ha aperto i lavori con un amichevole ricordo dei preziosi studi romani di Jean Lionnet.
Sulla stessa lunghezza d’onda, Dinko Fabris (Conservatorio di Bari – Università della Basilicata) ha fornito un’analisi dei Vespri di Bencini nell’itinerario di ricerca di Lionnet, in vista del concerto del giorno seguente.
Venerdì 4 giugno le due organizzatrici del convegno, Anne-Madeleine Goulet (CNRS – École française de Rome) e Caroline Giron-Panel (École française de Rome) hanno aperto la giornata ricordando il percorso di ricerca di Jean Lionnet, per poi lasciare la parola a Barbara Nestola (CMBV) che ha presentato il database I musicisti a Roma (1650-1750), trascrizione fedele degli appunti di Jean Lionnet sui musicisti romani, fruibile online sul sito del CMBV. Arnaldo Morelli (Università de L’Aquila) ha dunque contestualizzato e riassunto lo stato attuale delle ricerche sulla musica a Roma durante il Seicento.
La prima sessione, presieduta da Adalberth Roth (Biblioteca Apostolica Vaticana) e dedicata alle fonti musicali e storiografiche, ha visto l’intervento di Gesa Zur Nieden (Deutsches Historiches Institut in Rom) nel quale la ricercatrice ha focalizzato gli scopi politici e culturali delle rappresentazioni musicali promosse dagli ambienti francofili o ispanofili di Roma, sottolineando il carattere di rivalità che le caratterizzava, presentando esempi di carattere letterario, musicale e iconografico (O la Francia o la Spagna. Finalità delle rappresentazioni musicali tra storia politica e storia culturale). Nella stessa sessione, Christine Jeanneret (Fonds national suisse de la recherche scientifique) ha comunicato e analizzato le fonti manoscritte di lavori frescobaldiani da lei ritrovati presso la Biblioteca Vaticana e la Bibliothèque Nationale de France, soffermandosi in particolar modo sul processo di composizione (Dallo scarabocchio alla composizione : le fonti romane di musica per tastiera nel Seicento).
La successiva sessione, presieduta da Franco Piperno (Università Sapienza di Roma), ha avuto come tema il mecenatismo e ha visto l’intervento di Alexandra Nigito (Johannes Gutenberg-Universität Mainz) e Lea Hinden (Universität Zürich). Le due ricercatrici hanno comunicato i risultati del progetto di ricerca Musikalische Profilbildung des römischen Adels im 17. Jahrhundert : Lorenzo Onofrio Colonna und Benedetto Pamphilj sostenuto dal Fondo Nazionale Svizzero focalizzandosi sull’attività musicale durante l’amministrazione del principe Giovanni Battista Pamphilj (L’attività musicale alla corte dei Pamphilj e dei Colonna tra il XVII e XVIII secolo attraverso le fonti d’archivio). L’intervento di Valeria de Lucca (University of Southampton) ha indagato l’interazione tra la corte veneziana e quella romana in materia di mecenatismo prendendo come spunto la vicenda de l’Alcasta e alla luce di nuovi documenti archivistici dal lei rinvenuti (L’Amor per vendetta o vero L’Alcasta : opera e mecenatismo tra Roma e Venezia nella seconda metà del Seicento).
Gli studi sono preseguiti nel pomeriggio con la sessione presieduta da Margaret Murata (University of California, Irvine) dedicata alla musica profana. Maria Luisi (LUMSA, Roma – Università di 2 Bologna) ha fornito un’analisi stilistica delle composizioni per musica conservate nel codice Barb. Lat. 4203 della Biblioteca Apostolica Vaticana attribuite al Cardinale Antonio Barberini, molte delle quali musicate dal Pasqualini (Le poesie per musica del Cardinale Antonio Barberini nel cod. vaticano Barb. Lat. 4203).
L’ultima sessione di studi, presieduta da Noel O’Regan (University of Edinburgh), si è concentrata sulla musica sacra e spirituale. L’intervento di Florian Bassani (Deutsches Historiches Institut in Rom) ha indagato la questione della policoralità fornendo come esempio il caso della Chiesa del Gesù, proponendo ipotesi relative alla disposizione dei cori basate sull’architettura dell’edificio sacro e sull’ubicazione degli organi e portando esempi tratti dalle composizioni musicali ancora conservate presso l’archivio della Chiesa stessa (Questioni di prassi esecutiva policorale nella Chiesa del Gesù). Il conclusivo intervento di Anne Piéjus (IRPMF – CNRS) ha proposto una ricostruzione della presenza musicale nell’ambito degli esercizi spirituali della Congregazione dell’Oratorio, incrociando testimonianze storiche, come i documenti del processo di canonizzazione di Filippo Neri, e documenti musicali come il Teatro armonico spirituale di Giovanni Francesco Anerio (La musique intérieure. Perspective méthodologique).
Paolo Fabbri (Università di Ferrara) ha proposto le conclusioni dopo le due giornate di studi, sottolinenando il ruolo di Roma come polo di attrazione per musicisti e come centro di esportazione di talenti musicali e composizioni. Ha inoltre evidenziato l’alta qualità delle comunicazioni presentate dai giovani studiosi perfettamente orchestrati dai colleghi di chiara fama presidenti delle sessioni.
Gli atti del convegno saranno di prossima pubblicazione per la collanna Mélanges de l’École Française de Rome.
Le due giornate di studi si sono concluse con il meraviglioso concerto Vespro della Beata Vergine per la Cappella Giulia di Pietro Paolo Bencini (1675-1755), eseguito dalla Maîtrise du Centre de Musique baroque de Versailles, sotto la direzione di Olivier Schneebeli.
Michela Berti, Resoconto delle Giornata di Studio in Ricordo di Jean Lionnet: La musica a Roma nel seicento. Studi e prospettive di ricerca, in:
http://www.sidm.it/templates/dj-business004/segnalazionisoci/Resoconto%20convegno%20Lionnet.pdf
Conference Report: Seventeenth-Century Music in Rome: Studies and Research Perspectives
The French School in Rome convened an international group of young scholars of Roman seventeenth-century music, June 3–4, 2010, for an unusual “study day” dedicated to the memory of Jean Lionnet (1935–1998). Those giving papers were for the most part too young to have encountered Lionnet either in the 1980s in Roman archives and libraries or later at the Centre de Musique Baroque de Versailles (CMBV), where he continued his research and writing. Senior scholars who had known and worked with Lionnet in Rome and France chaired sessions and participated animatedly in the discussions. Les Pages & Les Chantres from the Versailles center gave a closing concert of Vespers music by Pier Paolo Bencini, edited by Lionnet, at the church of San Luigi dei Francesi.
The event also occasioned the announcement of a collaborative effort on the part of five institutions, including the French School and the German Historical Institute (DHI) in Rome, to study European musicians in Venice, Rome, and Naples (1650–1750). Entitled “MUSICI” and funded jointly by the Agence Nationale de la Recherche and the Deutsche Forschungsgemeinschaft, the project will include an online database and will be realized by a young international research team coordinated by Anne-Madeleine Goulet (CMBV/CNRS [Centre Nationale de la Recherche Scientifique]) and Gesa zur Nieden (DHI).
The conference itself— “La musica a Roma nel Seicento: Studi e prospettive di ricerca”—brought together recent PhDs in both music history and letters to introduce them to each others’ research and resources and, from the gathering of academic generations, to gain a view of the present scope of research on Roman music, its patronage, and its execution. Modern twentieth-century research was cogently presented by Arnaldo Morelli (Università degli Studi dell’Aquila) in a keynote address he termed a “sentimental” survey.
It began with a plethora of non-Italian dissertation writers in the 1970s (too numerous to name here) that preceded the projects of the 1980s by Lionnet on institutional patronage and performance practices, Saverio Franchi on music-related publishing, Claudio Annibaldi on patronage in its socio-cultural contexts, Franco Piperno on Corelli, Fabrizio della Seta on the Arcadian Academy, and Patrizio Barbieri on temperament and instruments (to mention only his early work); Morelli did not refer to his own extensive publications. Among areas ripe for continued future research, Morelli cited, first, relations between Rome and other European centers, naming in particular Mary Frandsen’s work on Italians in Dresden and Valeria De Lucca’s study of exchanges between Rome and Venice. Given the complexity of the social structure in decentralized Rome, music in court society was Morelli’s second area of exploration, in terms of its spaces, musical venues, and its “forest” of symbols. He cited as foundations for such research in music the detailed and fundamental studies by architectural historian Patricia Waddy and theater historian Elena Tamburini.
Research papers were organized into sessions on sources, patronage, and secular and religious music. Among the scholars who have not appeared at SSCM meetings were two presently at the DHI in Rome—Gesa zur Nieden, who studies the social significance of court spectacles in the later Seicento and the role that music plays in them; and Florian Bassani (Grampp), who considers the lost polychoral repertories and potential placement of choirs at the Gesù in Rome. Scholars trained in Switzerland included Lea Hinden, working on her dissertation at the Universität Zürich; Alexandra Nigito, who is now at the Johannes-Gutenberg-Universität Mainz; and Christine Jeanneret, currently of the Swiss Institute in Rome. Nigito and Hinden have been working with documentary and literary sources related to musical activities of the Pamphili, including Prince Giovanni Battista and his betterknown younger brother, Cardinal Benedetto. Nigito also communicated her findings on the musical establishment of Carlo Colonna (a younger son of the contestabile Lorenzo Onofrio). Jeanneret examined early seventeenth-century manuscript sources of keyboard and sacred vocal music, interrogating the relationships between printed music and manuscript versions with all their variants.
Having received a doctoral degree in Italian studies at the University of Urbino, Maria Luisi is completing a second doctorate in musicology at the University of Bologna. Her presentation focused on poetry ascribed to Cardinal Antonio Barberini Jr. in a single manuscript source and proposed various means of testing conflicting attributions for their authorship, including lexical sorting. Valeria De Lucca is currently on a postdoctoral fellowship at the University of Southampton, UK. Among her key discoveries in the Colonna archives in Subiaco was a letter of 1667 by Antonio Cesti, which provided the fulcrum for her history of the opera Alcasta, staged in Rome only four years after distinguishes between heterodiegetic (reflective) and homodiegetic (active) modes of narration.
It was a superb meeting. Mauro Calcagno and the rest of the program committee selected a fascinating and varied raft of papers, the soul of the event. And in an effort I can especially appreciate, Greg Barnett made running the conference look effortless. Everything—technology, transportation, concerts, meals—went off as if it happened every day. The Society is indeed fortunate to enjoy the dedicated and expert service needed to bring such a marvelous conference to life.
Cesti’s death and revised later for Venice as Astiage, with music by Viviani. The study brought out the differences and accommodations between Venetian and Roman modes of operatic production and the role of singers in decisions about what to stage. The closing paper by Anne Piéjus (CNRS) focused on meditation practices and “musique intérieure,” evoking both Jesuit and Oratorian forms of spiritual devotion and the place and effect music had within them.
The conference opened with four presentations devoted to the memory and work of Jean Lionnet. Jean Duron (CMBV) who began collaborating with Lionnet during the latter’s first Roman sojourn, profiled Lionnet’s love for music and musicians of the past and made vivid how Lionnet’s work reflected the living presence of seventeenth-century Rome in his daily life. Dinko Fabris (Conservatorio di Bari/Università della Basilicata) described Lionnet’s interest in performance practices as revealed in musical sources themselves and introduced the Bencini Vespers in anticipation of the closing concert. Caroline Giron-Panel and Anne-Madeleine Goulet, both of the École Française de Rome and organizers of the conference, offered a musical and scholarly biography of Lionnet. It will appear along with a complete bibliography in the forthcoming acts of the conference, to be published by the École. Barbara Nestola (CMBV/CNRS) announced and demonstrated the database inventory Musicians in Rome (1570–1750). Begun on paper by Jean Lionnet, Nestola and Livia Lionnet Puccitelli have made all the material available through the Center’s Philidor website. It is searchable by names, places, years, and institutions (philidor. cmbv.fr/catalogue/intro-bio).
Paolo Fabbri (Università di Ferrara) elegantly wrapped up the proceedings with emphasis on the international lives of the aristocrats who patronized music, the importance of public music to their images—outside of the public theaters— and an appeal to music historians today to integrate the various kinds and levels of written sources. The source, he said, “è una traccia, non un verbale” (is a trace, not a transcript).
Soon after this closing, Rome’s musical past and Lionnet’s work came to life, first with a solo courtyard recital by Marco Horvat, artistic director of the ensemble Faenza. He accompanied himself on theorbo singing Caccini and Kapsberger, among others, with the greatest naturalezza and marvelous agility in both fingers and throat. In the evening, Olivier Schneebeli led three soloists, together with cori spezzati of children, adults, and instruments, in performances of four antiphons with their psalms, the Ave maris stella, and a Magnificat, all set by Bencini for the Cappella Giulia. The church of San Luigi dei Francesi, with its three famous Caravaggios, was packed to the altars with an enthusiastic, spillover crowd whose noisiness scotched plans to issue the recording made by Vatican Radio. (The ensemble A Sei Voci released the Bencini Vespers in 1995, with a second reissue on Astrée/Naïve this year.) The full program of the conference is available online at www.efrome.it/fr/PDF/musici_03062010.pdf.
Margaret Murtata, Conference Report: Seventeenth-Century Music in Rome. Studies and Research Perspectives, in: 17th Century Music 20 (2010), pp. 10, 19.
Anne-Madeleine Goulet
Centre d’études supérieures de la Renaissance
59 rue Néricault-Destouches
BP 12050
F-37020 TOURS Cedex 1
anne-madeleine.goulet(at)univ-tours.fr
Prof. Dr. Gesa zur Nieden
Universität Greifswald
Institut für Kirchenmusik und Musikwissenschaft
Bahnhofstr. 48/49
D-17489 Greifswald
Tel.: 0049-3834-420-3522